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L’acronimo ESG, che può contare circa 20 anni di vita, si riferisce a tre aree principali, precisamente Environmental (ambiente), Social (società) e Governance verso le quali le aziende sono chiamate ad impegnarsi. Tuttavia l’impegno verso benessere sociale e verso i dipendenti oggi non è un impegno concreto e molto diffuso.

Ogni pilastro dell’ESG fa riferimento ad un insieme specifico di criteri come l’impegno ambientale, il rispetto dei valori aziendali e se un’azienda agisce con accuratezza e trasparenza o meno, iniziative per il benessere sociale etc. In genere, i criteri ESG assumono la forma di una sorta di punteggio di credito societario in cui tutte e tre le categorie vengono utilizzate per valutare la quantità di rischio di un’azienda ed è necessaria per le scelte degli investitori.  In estrema sintesi ESG  è nato quindi per misurare la sostenibilità di un prodotto finanziario e riferisce il comportamento delle imprese nei confronti delle questioni:

  • ambientali (cambiamento climatico, inquinamento, emissioni di gas serra),
  • sociali (parità di genere, diritti umani, benessere dei lavoratori)
  • governance (lotta alla corruzione, etica retributiva, giustizia fiscale).

A differenza del passato, in cui gli investitori erano più interessati a investire in aziende o progetti attraenti solo dal punto di vista economico, la nuova generazione di investitori è anche socialmente consapevole e preferisce investire dove trova anche principi e valori morali.

E chi compra come valuta?

Non posso che notare un’interessante parallelismo fra il comportamento degli investitori e quello dei “consumatori” – non più consumatori, ovvero delle persone che iniziano a fare acquisti più consapevoli. Grazie all’intervento delle scelte d’acquisto di queste persone i parametri ESG potrebbero diventare una forbice importante che segnerà il mercato. Se l’impegno ambientale e sociale inizia a fare la differenza sul mercato allora le cose cambiano. Di fatto l’impatto ambientale e la responsabilità sociale sono tematiche che riguardano tutti.

Eppure se la E e la G della ESG sono certamente quelle che hanno maggiore presa sulla sensibilità collettiva,  delle due,  la S lascia ancora molto a desiderare: gli impegni sulla parità di genere e i diritti umani, il benessere sociale e dei propri dipendenti sono ancora troppo bassi oppure fasulli (socialwashing).

 

Poi leggo l’indagine Deloitte  https://esgnews.it/social/benessere-dei-lavoratori-6-azioni-che-i-leader-aziendali-devono-considerare/  e trovo tutte le conferme.

Le aspettative dei lavoratori sull’azione delle organizzazioni volte a raggiungere dei progressi nelle iniziative di sostenibilità umana, soprattutto tra i lavoratori Millennial e Gen Z (il 67% della forza lavoro), sono elevate. E, sebbene il 94% degli intervistati di affermi che la propria organizzazione sta avanzando di almeno un passo verso questo obiettivo, esiste un divario significativo tra le aspettative dei dipendenti e il modo in cui i leader stanno rispondendo ad esse. (…) La maggior parte dei dipendenti si aspetta che i proprio dirigenti facciano progressi sulla sostenibilità umana, ma le aziende non sono all’altezza.

Quindi “ESG si, ma non solo green” leggevo in un interessante articolo della rivista mensile Vita che ho conosciuto in occasione del Salone SCR e dell’innovazione sociale 2023. Di ESG ne parla il mondo: i governi li mettono in agenda, le aziende ne discutono nei cda e i cittadini la tengono in considerazione nei consumi ma di S se ne parla troppo poco. Certo l’impatto sociale è meno misurabile, fa meno scalpore, non fa notizia come il problema di un pianeta inquinato verso l’autodistruzione . Eppure la sostenibilità parla anche di salute e i diritti umani. Ogni impresa anche le più piccole dovrebbero rifletterci seriamente.

 

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